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GLI INVESTIMENTI CINESI E LA CRISI FINANZIARIA

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La recente contrazione economica globale, combinata con la crisi del debito pubblico in Europa, ha avuto un impatto positivo sull’azione dei fondi sovrani (d’ora in poi FOS) cinesi. Si potrebbe sostenere che i problemi derivanti dalla crisi e dal tema della liquidità abbiano spostato l’attenzione dei governi occidentali dalla necessità di implementare leggi ferree in materia di FOS al bisogno impellente di capitale per sollevare la depressa attività finanziaria dell’Occidente. Significative, in questo senso, le parole di un accademico dell’Università di Georgetown:

“La crisi finanziaria globale ha […], in parte, [alleviato] alcuni dei problemi politici internazionali del CIC [China Investment Corporation] e fornito alla Cina protezione per investire secondo una logica che soddisfa sia gli incentivi commerciali che gli obbiettivi politici e strategici del paese stesso […] senza implicazioni di tipo geopolitico”.

Al momento, l’Europa è considerata la destinazione adatta ad ospitare gli investimenti dei FOS. In un’intervista con Xinhua (agenzia di stampa ufficiale della Repubblica Popolare Cinese) nell’aprile di quest’anno, Gao Xiqing – Vicepresidente del Consiglio di Amministrazione del CIC – dichiara che:

“L’Europa, dove le istituzioni rendono difficilmente possibile il rapido investimento domestico, offre un’opportunità ideale per tali investimenti [infrastruttura], dato che là i governi hanno modificato le politiche in materia di tasse e regolamentazione al fine di accogliere investimenti esteri, nel tentativo di aiutare le proprie economie ad uscire dalla crisi finanziaria.”

Ad esempio, il CIC acquistò dieci punti percentuali dell’Heathrow Airport di Londra nel novembre del 2012 e, nel giugno dello stesso anno, ottenne il 7% in partecipazioni nella compagnia francese fornitrice di apparecchi satellitari, Eutelsat Communications SA. Inoltre, nel 2011, il governo portoghese negoziò la privatizzazione più grande della sua storia, vendendo il 21% del capitale sociale della compagnia fornitrice di energia elettrica Energias de Portugal alla cinese Three Gorges.

Sempre a proposito di privatizzazioni nell’area dei Paesi sudeuropei piegati dalla crisi, è importante menzionare l’affare COSCO-OLP.
OLP è la sigla usata per designare il colossale porto greco Piraeus, il quale, trovandosi in posizione strategica, beneficia della massiccia attività turistica (circa venti milioni di passeggeri ogni anno) verso le maggiori isole greche. COSCO, invece, è la sigla che sta per China Ocean Shipping Company: azienda fornitrice di servizi logistici e di trasporto. Questa assunse il controllo di metà del porto nel 2008 e, da allora, paga circa cento milioni di euro all’anno al governo greco per l’affitto della struttura. Un recente accordo, che è in corso d’approvazione da parte dei consigli di amministrazione di entrambe le compagnie, stabilisce che la COSCO spenda duecentotrenta milioni di euro al fine di accrescere la capacità del porto stesso di due terzi nel giro dei prossimi sette anni. In cambio dell’impegno finanziario, la compagnia cinese sarebbe esentata dal pagamento dell’imposta annuale finché la Grecia non raggiungerà i livelli di prodotto interno lordo (PIL) antecedenti alla crisi. Perciò, il porto è chiaramente in procinto di rafforzare il proprio ruolo di adescatore, per rimanere in termini marittimi, di attività commerciale cinese all’interno dell’Unione Europea.

Il rapporto annuale del CIC mette in luce un’altra rilevante acquisizione all’interno dell’eurozona. Nel dicembre del 2011, infatti, il FOS cinese investì tre miliardi e centocinquanta milioni di euro nella compagnia francese produttrice di petrolio GDF Suez EPI SA. La manovra fu peraltro di enorme portata, dato che il tetto massimo di partecipazione in una compagnia estera fissato dal CIC è di dieci punti percentuali; in questo caso, però, il FOS stesso ruppe la consuetudine acquistando il 30% del capitale della compagnia in questione.

Nonostante il basso profilo che i FOS cinesi generalmente adottano in tema di trasparenza e divulgazione di informazioni sui propri portafogli d’investimento, la stragrande maggioranza di operazioni commerciali è portata a termine da attori privati. Tuttavia, le compagnie private sono realmente private? Talvolta è difficile stabilire se alcune entità di quella tipologia sono, in realtà, legate in qualche modo al governo cinese:

“Molte imprese private operano formalmente sotto protezione di aziende di stato o collettive. Quindi, risulta difficile calcolare le quote dello stato e delle economie private”.

Se così fosse, l’influenza che Pechino eserciterebbe sull’Europa sarebbe di gran lunga più grande rispetto a quella che potrebbe avere se tenessimo conto solamente delle istituzioni controllate dal governo centrale, cioè i FOS.
Ciononostante, sebbene la maggior parte dell’iniziativa commerciale in Europa sia intrapresa da individui privati, nel 2009, il CIC spese trecentoquaranta milioni di euro per comprare titoli della Songbird Estates PLC, proprietaria del Canary Wharf di Londra e, nel 2011, spese altri tre miliardi e duecento milioni di euro per rilevare parte delle azioni dell’azienda petrolifera Gaz de France.

Infine, gli investimenti del CIC in Europa vengono visti da alcuni come plasmatori di un panorama economico da cui ognuno esce vincitore. Da un lato, la Cina continua a investire il proprio denaro e ad accumulare capitale approfittando della bassa valutazione in Europa, dall’altro, tali acquisizioni – specialmente nel settore dell’infrastruttura – si rivelano essere vantaggiose e favorevoli per i Paesi europei (Germania e Regno Unito su tutti), perché potrebbero condurre gli ultimi fuori dalla recessione o, almeno, velocizzarne il periodo di “convalescenza”. Nel complesso, questo scenario sembra avere un duplice riscontro. In primo luogo, potrebbe addirittura aiutare le aziende europee a rinsaldare le loro relazioni con la futura economia numero uno al mondo; secondo, è possibile che esso contribuisca ad abbattere le barriere protezionistiche del mercato per il bene di entrambi, Cina ed Europa.

Si è parlato di Germania e Regno Unito. Ebbene, questi sono i due Paesi dell’Unione Europea che, da inizio secolo, si sono dimostrati più aperti ad accogliere gli ingenti flussi di denaro “rosso”. Il CIC vede in particolar modo il Regno Unito come meta ideale per investimenti a lungo termine, proprio a causa del clima “business-compatibile” e della solida struttura legale.
Importante notare il fatto che sia stata esattamente Londra la città in cui il Kuwait Investment Authority – considerato il primo vero FOS di età contemporanea – fondò il proprio ufficio (KIO, Kuwait Investment Office) nel 1953. Ciò rende chiaro quanto la metropoli, e la regione britannica in generale, venga da sempre considerata all’estero come il nucleo del mondo degli affari. Essa vanta una lunga tradizione in qualità di destinazione principale di investimenti provenienti da tutto il globo. Lou Jiwei stesso – l’ex CEO (Chief Executive Officer) del CIC – dichiarò: “the UK is the most welcoming of Chinese investment among all countries”. A conferma di ciò, ricordiamo la succitata acquisizione dell’aeroporto Heathrow e quella relativa ai duecentosettantasei milioni di sterline impegnati, undici mesi dopo, nella Thames Water, equivalenti all’8.68% del capitale sociale della compagnia.

A far da contraltare a questa tendenza positiva vi è il tema delle critiche di pubblici ufficiali cinesi nei confronti di alcuni Paesi europei e non solo – di cui non viene ovviamente fatto il nome – rei di aver cambiato approccio verso l’attività d’investimento dello Stato asiatico all’interno della regione. Costoro affermano che tali Paesi, immediatamente dopo lo scoppio della crisi (2007), avrebbero accolto a braccia aperte il capitale della Repubblica Popolare Cinese per sollevare le rispettive economie dalla piaga finanziaria; ora, però, gli stessi sembrerebbero dimostrarsi riluttanti di fronte alla richiesta di aprire le proprie frontiere al denaro “rosso”, adducendo come scusa la potenzialmente minacciosa penetrazione politica comunista in settori di rilievo ed importanza strategica quali trasporto, comunicazione, infrastruttura, difesa e high-tech. Di conseguenza, è recentemente cresciuto l’uso dell’accezione discriminatoria relativa al “colore dei soldi” – per citare ancora una volta Gao Xiqing – riferendosi, appunto, al comportamento discriminatorio dei paesi imputati vis-à-vis la Cina. Tali critiche rivolte all’ipocrisia europea in materia di sicurezza vengono puntellate con la conferma, da parte dell’entourage del CIC, che l’obbiettivo del fondo è sempre e solo stato quello acquistare capitale sociale in compagnie ed industrie estere allo scopo di massimizzare il ritorno economico sull’investimento.

“Il motivo per cui investiamo non è dato da fusioni-acquisizioni o dalla possibilità di controllare compagnie estere. Non vogliamo essere visti come distruttori di alcun Paese”.

Venendo alle riflessioni finali, si noti come gli investimenti cinesi nell’Unione Europea, a partire dall’inizio della crisi finanziaria nel tardo 2007, tesero a concentrarsi in particolari aree di interesse come il Regno Unito. Ciò è avvenuto a causa della maggior reattività di queste zone ad aprirsi alla penetrazione di capitale cinese rispetto ad altri membri dell’UE. Inoltre, il processo di acquisizione portato avanti dal CIC, e da altri FOS cinesi come il SAFE Investment Company e l’Hong Kong Monetary Authority Investment Portfolio, mette in evidenza un altro importante trend economico, ovvero quello che pone l’UE, assieme ad alcune economie emergenti, come nuova destinazione preferita per investimenti a lungo termine.

Un tale cambiamento di rotta rispetto alla consuetudine di rivolgersi agli Stati Uniti d’America è da leggersi e inquadrarsi nel contesto di due fondamentali eventi. Per prima cosa, nel novembre del 2008, gli USA approvarono un disegno di legge chiamato FINSA (Foreign Investment and National Security Act), secondo cui qualunque acquisizione – anche quelle al di sotto del dieci per cento del capitale sociale di compagnie americane – da parte di entità finanziarie possedute dallo stato di appartenenza, faccia scaturire nell’immediato un processo investigativo ad opera del CFIUS (Committee on Foreign Investment in the United States). Già di per sé, questo accorgimento legale basterebbe a scoraggiare ogni investitore estero, dati i pesanti costi da sopportare solamente per poter “sopravvivere” alla complessa investigazione.

In secondo luogo, il fatto che la Cina sia in possesso di numerosi titoli azionari dal basso rendimento, denominati in dollari, costringe la stessa a diversificare sensibilmente i propri pacchetti, tagliando il numero di beni ancorati al dollaro e preferendo quelli denominati in euro.
Si giustifichi la breve digressione finale per dire che, nonostante la metà del capitale del CIC sia ancora investito negli USA, la combinazione dei due punti nodali descritti poc’anzi lascia intendere fino a che punto le maggiori istituzioni cinesi, specialmente i FOS, si stiano persuadendo a guardare altrove, ad esempio in Europa.

*Oscar Mina è laureato in Lingue e Letterature straniere presso l’Università degli Studi di Milano


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