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ORIZZONTI DAL KOSOVO E METOHIJA

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Da dove comincia l’attuale Kosovo? Per me è iniziato dall’aeroporto di Zurigo – dove si fa scalo giungendo da Roma – all’imbarco per Pristina; lì presiedeva una moltitudine di facce anomale, quasi “incidentate” per la peculiare fisionomia storta e scomposta. Volti granitici, sgraziati e già vecchi, cui ne seguivano altri, quelli delle donne, che, fisse al seguito degli uomini, trovavano riparo sotto il velo: Schipetari, dunque. Di Serbi, a bordo, nemmeno l’ombra; eppure la terra verso cui viaggiavo e che distava poco più di un’ora, la abitano ancora, malgrado tutto e tutti, i Serbi del Kosmet, anzi è proprio la loro, quella terra, solo che a essi non è consentito partire e poi tornare come un qualsiasi cittadino della Comunità Europea o un serbo qualsiasi. Ecco perché la mia prima comprensione ha avuto origine in Svizzera, Paese che poco c’entra con le rovine del sacro Kosmet.
L’appartenenza di questa Provincia alla Serbia è inscritta ancora oggi non solo al catasto, ma nella Storia: fin dal Medioevo sbocciarono chiese e benedizioni, lotte sanguinose e fiere, fierissime sconfitte, tra cui spicca la Battaglia della Piana dei Merli (1389), che vide le truppe ottomane, guidate dal sultano Murad I, sconfiggere quelle cristiane del principe Lazar. Composte da 50.000 unità, le prime, e soltanto dalla metà, le seconde.
Fu una disfatta tremenda: perirono nobili e cavalieri – l’aristocrazia, dunque; nulla a che vedere con gli odierni mercenari – e venne aperta la via alla dominazione turca che, a distanza di cento anni, si sarebbe insediata nell’invitta memoria serba. Dalla rovinosa battaglia fiorirono un’epica e un’eredità irripetibili: non separarsi mai dal destino della propria terra, che, in tutto e per tutto, coincide con quello individuale e comunitario dei Serbi.
Ancora, tanta storia celeste è rintracciabile nelle spoglie immortali – il suo corpo che profuma di rose, dopo secoli, non ha mai preso la rigidità destinata a ogni comune mortale – del Santo Stefano Uroš, fondatore di Visoki Dečani, il monastero più importante, più assediato e più bello di tutto il Kosmet, meta di ogni pellegrinaggio del cristianesimo ortodosso, in cui si trova la rarissima, o forse unica, icona del Cristo con la spada: la pace va conquistata, non subita.
La geografia terrena, però, oggi spesso non coincide con quella spirituale ed è così che, attraversando Pristina – capitale per gli “indipendentisti”, semplice capoluogo per i Serbi – sembra di piombare nella modernità più consunta: palazzi in serie, negozi in franchising, macchine lussuose e ingombranti, night club e divertissement squisitamente occidentali. Addentrandosi nella città, ci si trova in boulevard Bill Clinton, in onore dell’ex presidente americano, che ha favorito la cacciata del popolo serbo e che sullo stesso viale gode persino di una statua, lì eretta nel 2009 per non dimenticare tanto favorevole “accordo” degli onnipresenti Stati Uniti.
Nella zona meridionale di Pristina, infine, ci si sente geograficamente smarriti, ritrovandosi al cospetto di una riproduzione della Statua della Libertà, alta dieci metri, che campeggia sull’Hotel Victory. Nemmeno le moschee, luoghi normalmente sacri, lasciano ben pensare: finanziate da Stati davvero canaglia come l’Arabia Saudita e il Qatar, in cui vige l’eterodossia wahhabita, e disseminate lungo tutto il Kosmet, sono rivolte, più che a La Mecca, al colonialismo occidentale nel mondo islamico.
È così che, dopo essersi autoproclamato indipendente il 17 febbraio del 2008, il Kosovo degli Schipetari – con il sostegno dell’UCK, della NATO e dell’EULEX (Missione dell’Unione Europea sullo Stato di diritto in Kosovo) – si è apprestato a divenire un fedele duplicato del peggiore Occidente. A sventolare su tanta sciagura, tre bandiere fianco a fianco: quella albanese, quella americana e quella dell’Unione Europea. Una triade tanto vergognosa quanto inquietante.
I motivi per cui Washington, in compagnia di Bruxelles e di Berlino, ha democraticamente sostenuto e garantito tale tirannia restano ancora una volta invariati: interessi economici – il Kosmet è terra prolifica di giacimenti minerari – e geopolitici; presso Uroševac, infatti, si trova Camp Bondsteel (soprannominata anche “la piccola Guantanamo”, per il trattamento riservato ai prigionieri), la più grande base militare americana di tutta la Provincia, dotata dei più sofisticati sistemi elettronici di spionaggio. Un avamposto perfetto, quindi, per controllare Russia ed Europa. A questo proposito, è bene dire che durante la guerra il campo base, rispetto alle altre 122 postazioni, militari e non di tutto il Kosmet, è stato l’unico territorio a non essere colpito dai proiettili all’uranio impoverito sganciati dall’esercito USA. Poco importa, se altre centinaia di soldati e di civili sono morti di cancro: gli Americani sono sani e salvi!
Ovviamente, il gioco sporco non finisce qui: la baronessa Ashton di Upholland, Catherine Margaret Ashton, alto rappresentante per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza dell’Unione Europea, ha apertamente sostenuto Haschim Thaçi – detto “il serpente” – capo dell’UCK (Esercito di Liberazione del Kosovo). Questo personaggio, negli anni ’90, ha finanziato le sue attività mafiose e terroristiche mantenendo un serrato controllo sul contrabbando di eroina e cocaina, nonché sul giro di prostituzione; ancora, infinitamente peggio, egli è stato promotore di uno feroce traffico d’organi: reni, cuori, fegati strappati dai corpi dei serbi ancora vivi. Sono gli USA, insieme al rapporto stilato dall’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, ad affermarlo, non soltanto i patriottici serbi. Thaçi, giudicato e condannato nel 1997, dal 2007 è il Primo Ministro del Governo di Pristina. Perché? Facile, per via delle solite bieche e luride manovre filoatlantiche: mettere al comando di un governo fantoccio esclusivamente uomini ricattabili – insieme a Thaçi, l’altro benemerito signore è Ramush Haradinaj, la cui storia criminosa meriterebbe un capitolo a parte – da muovere a proprio piacere come pedine per gli interessi occidentali.
È una storia disperata, questa, se si pensa che le rappresentanze non albanesi rimaste presenti sul territorio costituiscono all’incirca il 20% della popolazione; sono 24.000 le persone di varie nazionalità, nonché una buona rappresentanza di albanesi, messa al bando perché considerata dalle autorità kosovare traditrice, in quanto “collaborazionista” del governo di Belgrado, a sua volta infedele all’Unità serba.
Sono minoranze sparpagliate, dicevo, quasi tutte confinate nelle enclavi, circondate da Schipetari e dalla più impunita sopraffazione. È da qui che, per la seconda volta, ha avuto inizio il mio viaggio: nei territori serbi o, meglio, nelle riserve a cielo aperto, in cui, loro malgrado, sono costretti alla sopravvivenza i Serbi del Kosmet.
Sarebbe stato un peccato, visto il tempo a disposizione, fermarsi a Pristina, fra tetri palazzoni e alberghi avveniristici, strade caotiche e gigantografie pubblicitarie.
Dei 40.000 Serbi che abitavano la città prima della guerra – sarebbe meglio parlare di assalto, la guerra la si fa in due – oggi se ne contano poche decine. Difficile stabilire con sicurezza la cifra e problematico convincerli a rilasciare interviste; più ardua ancora, però, la loro esistenza tra gli invasori: nel gioco delle parti capovolte, oggi sono i Serbi gli “esuli in Patria”.
Dalla stazione degli autobus, insieme al fotografo che era con me, presi uno sconquassato pullman in direzione di Kosovska Mitrovica, zona nevralgica dei Serbi del Kosmet. Le strade, dissestate, fangose e quasi buie per la sera che incedeva, erano all’altezza del nostro mezzo di locomozione.
Era il 28 novembre e, durante il tragitto, vedemmo molte bandiere albanesi, issate alle finestre delle dimore schipetare, sventolare al vento freddo; un panorama desolante, quello delle case con i mattoni a vista, sparpagliate per la campagna piatta: più che sembrare abitate, davano l’impressione di essere state occupate in fretta e furia. Quel giorno ricorreva la “Festa della Bandiera”, celebrazione dell’Indipendenza albanese dagli Ottomani.
Spettacolo peggiore, però, era la vista dei minuscoli cimiteri – sette, otto tombe ciascuno – abbattuti, abbandonati e distanti soltanto poche centinaia di metri da quelle abitazioni, in cui le luci domestiche, a poco a poco, riempivano le stanze e le vite. Solo la caduta della neve ammansiva la circostante desolazione.
Dopo poco più di un’ora, il pullman ci lasciava nel bel mezzo di una via trafficata, con negozietti, gente a passeggio e molti bar invasi dalla nebbia di mille sigarette, senza alcuna presa d’aria. Tutti, o quasi tutti, in Kosovo e Metohija, fumano; non c’è legge, età, prudenza che tenga: il fumo è fatto personale e costumanza comunitaria.
Eravamo arrivati a Mitrovica, città divisa a metà, dopo la guerra, dal fiume montenegrino Ibar: a sud abitano 80.000 Schipetari, a nord circa 20.000 Serbi.
Il ponte, che dovrebbe essere simbolo di unione tra le parti, lì serve a separare e a rimarcare due irriducibili etnie, le stesse che prima della guerra convivevano in buon vicinato e in comunità di lingue, tanto che i Serbi parlavano anche l’albanese così come gli Schipetari parlavano pure il serbo; oggi la città è sdoppiata – a partire dal nome: per i primi, è Mitrovicë; per i secondi, Kosovska Mitrovica – e in essa, da nord a sud, la prospettiva muta radicalmente: la struttura dei palazzi; la lingua, scritta in caratteri latini da una parte e cirillici dall’altra; la moneta, l’euro e i dinari; i negozi occidentali e le antidiluviane botteghe; la moschea, situata tra le vie centrali del sud, e la cattedrale ortodossa, confinata su una collinetta nella zona nord. Infine, persino i camposanti, a dimostrazione che i morti non sono mai tutti uguali, differiscono: quello schipetaro, a nord di Mitrovica, è perfettamente intatto, mentre quello serbo, situato a sud, è interamente distrutto. Alle sue spalle, una piccola chiesa, anch’essa a pezzi.
È così che questa città, a settentrione del Kosmet, si è fatta due: da una parte l’agio di essere maggioranza schiacciante; dall’altra, dirimpetto, il disagio di essere minoranza schiacciata. A garantire poi l’impari dualità, bastano un presidio della KFOR (Kosovo Force), che campeggia ventiquattr’ore su ventiquattro al “confine schipetaro” del ponte, e sulla sponda di quello serbo, più che una barricata, un cumulo di macerie impossibile da varcare se non a piedi. È strano pensare che a sole poche centinaia di metri c’è un altro ponticello, sul quale le macchine scarrozzano avanti e indietro; con un’accortezza, però: a Mitrovica Nord le auto sono sempre prive di targa, è una forma di distintivo, per i Serbi; solo quando gli “avventurosi” escono dall’esilio, tirano fuori da certi nascondigli le targhe kosovare, forse contraffatte.
Inizia qui un vero calvario burocratico; i Serbi provvisti di una targa serba, ad esempio di Belgrado, non possono guidare nel sud del Kosmet: i documenti, infatti, non sono riconosciuti dal governo di Pristina e questo permette alla polizia kosovara di sequestrare la macchina. Persino a chi è in possesso di documenti kosovari, ma viaggia su un veicolo con targa serba, non è consentito guidare nel sud della provincia; la fine è sempre la stessa: puntuale requisizione del mezzo. L’unica probabilità di riuscita è quella di pagare un’assicurazione di venti euro a settimana o di sessanta euro al mese; un’esagerazione, considerando i bassissimi stipendi serbi – trecento dinari mensili equivalenti a meno di trecento euro – e l’enorme tasso di disoccupazione. Attenzione, però: se si viene fermati a uno dei tanti, tantissimi posti di blocco posti lungo gli snodi obbligatori e non si è fatta l’assicurazione, il conducente verrà spedito di fronte a un giudice, che, a sua discrezione, potrà condannare il malcapitato a pagare un salasso di 500 euro.
D’altro canto, va anche detto che chi è provvisto di documenti kosovari, ha sì l’opportunità di immatricolare l’auto con una targa kosovara, ma non potrà poi guidare nei territori in cui l’indipendenza del Kosovo non è riconosciuta.
Al di là della folle burocrazia per cui un serbo del Kosmet è destinato a essere un recluso – sia da una parte che dall’altra – il rischio maggiore per lui è ancora rappresentato dai civili schipetari, che si rivelano molto più vendicativi, e in maniera meno raffinata, delle Forze dell’ordine. Per tale ragione Branislav, il nostro fixer, poteva utilizzare la sua vettura unicamente a Mitrovica nord e nei Comuni “di proprietà serba”: Zvečan, Leposavić e Zubin Potok. Stop.
Se è vero che, a poco più di un’ora di volo, esistono anche treni e autobus per spostarsi da un luogo all’altro, ciò non vale più per il Kosmet: dopo il feroce attacco del 17 marzo 2004, le stazioni ferroviarie sono divenute stazioni-fantasma, davanti alle quali i treni passano senza fermarsi per andare dritti in Serbia; mentre, per quanto riguarda i pullman, questi o fanno rare corse e a ore improbabili – di solito alle cinque del mattino – o non ci sono affatto. In tal modo, oltre alle levatacce, ho avuto modo di sperimentare l’autostop, nonché di passeggiare per chilometri e chilometri per ritrovare, alla fine, un malandato taxi che mi riportasse indietro, a Mitrovica Nord.
I taxi vengono molto usati, ma sono tremendamente costosi. «È il prezzo che noi paghiamo, rischiando la polizia kosovara… e gli “assassini”», affermano tanti tassisti.
Se per me, però, le passeggiate a passo lungo e ben disteso nella campagna innevata dei pomeriggi dicembrini restano uno dei ricordi più belli, così non è per i Serbi: loro, laggiù, non sono di passaggio.
A distanza di dieci anni dall’ultimo sanguinoso assalto, il conflitto continua, con l’unica accezione che a essere mutati sono i metodi di aggressione, non i fini a tutt’oggi invariati: spazzare via dal Kosovo e Metohija ogni traccia serba.
Solo stando a stretto contatto con le quotidiane e non ordinarie difficoltà dei Serbi, si può comprendere cosa significhi “vivere in riserva”, anche in una città come Mitrovica, che riserva non è.
Prima di partire per le enclavi – villaggi schietti e poverissimi – c’è però una storia al centro di Mitrovica nord, che merita di essere raccontata: è quella di Biserka, il cui nome significa “Perla”. “Perla tra la guerra”, come l’ho ribattezzata io.

Mi aggiravo tra le vie centrali di Mitrovica nord, in compagnia del fixer e del fotografo, quando notai un edificio fatiscente, in totale rovina. Branislav ci disse che si trattava di un’ex scuola elementare, utilizzata dopo la guerra del ’99 come sistemazione provvisoria per i rifugiati; tale provvisorietà durò undici anni, il tempo corrente al governo di Belgrado di procurare a 126 persone – uomini e donne, vecchi e bambini – delle vere case in cui abitare.
«Oggi, dopo tanto tempo, lì dentro ci vivono ancora alcune persone», aggiunse Branislav.
Pioveva a dirotto, quel pomeriggio, e l’aspetto del palazzo era a dir poco tetro: vetri rotti e oscurati, intonaco divelto, scritte sui muri e un’unica lucina, proveniente da un punto dell’ala destra, che rimarcava la cupezza circostante. Nonostante lo sgomento suscitatomi dal posto, decisi di entrare per parlare con gli ultimi “reduci”.
Al piano terra, desolato e silente, sembrava non abitarci nessuno ma, già salendo al piano superiore, si intravedevano congerie di vestiti, bottiglie di plastica, cartoni e stracci: immondizia su immondizia. Un odore nauseabondo investiva l’aria, mentre, mano a mano che ci inoltravamo, la spazzatura diveniva talmente alta e ingombrante da costringerci a schiacciarci contro la parete per riuscire a passare. A un tratto, nel bel mezzo di un corridoio, scorgemmo una sedia con accovacciato sopra un cane brutto, di taglia piccola e spelacchiato, che appena ci vide iniziò a ringhiare, pur senza sollevarsi. Poco dopo, sbucò da una porticina scura e malmessa qualcuno di cui non riuscii a decifrarne il sesso, non tanto per il buio che stava calando come un sipario su tutto, quanto per l’ambiguità di quella figura. Era una donna o, meglio, lo era stata una volta: chi ci stava di fronte in quel momento era una persona alta di statura, ma rachitica di corporatura; le mani troppo gonfie stonavano, quasi non le appartenessero, con la sua eccessiva magrezza – non poteva pesare più di 50 chili – e un incessante tremito le scuoteva il corpo ormai prosciugato, su cui ballonzolava un abito da uomo, interamente nero. “Sarà avanti con l’età”, pensai, ancora ignara del fatto che moltissime persone, laggiù, a cinquant’anni ne dimostrano settanta. Aveva gli occhi di un verde cupo, le guance incavate per la bocca quasi vuota – non aveva che tre o quattro denti – dalla quale proveniva una voce roca e maschile. Senza rendermene conto, indietreggiai, mentre Branislav ci presentava e le spiegava il motivo della nostra presenza. Ovviamente le strinsi la mano, ma a fatica. La donna si chiamava Biserka, nome che in serbo significa “Perla”.
Durò poco, l’incontro: la testa mi girava talmente forte che mi strinsi al braccio di Branislav per reggermi; sentivo l’urgenza fisica di uscire o, meglio, di scappare da lì. A provocarmi quell’istinto di fuga, non era soltanto lei, Biserka, ma soprattutto il posto opprimente; esistono luoghi che danno un’inspiegabile pace e altri che, senza che nulla accada, procurano un inferno: io, quell’inferno, lo sentii fin dai primi istanti formicolarmi sotto la pelle. Uscii all’aria aperta e dopo pochi minuti mi raggiunsero anche i miei due compagni.
Ci infilammo in un bar in stile giamaicano, a soli cinquanta metri da lì. Mi guardai intorno – ragazzi allegri si scolavano kafa (il caffè turco) o birra di fronte a una televisione perennemente accesa – e capitombolai in un pianto muto e amaro. Com’era possibile che a così breve distanza da quell’allegria ci fosse Perla? Com’era possibile che dei serbi di Mitrovica, con il loro grande patriottismo, ingurgitassero noccioline e alcool, ignorando quell’infame esistenza?
Branislav ed Emanuele, avevano appuntamento con Biserka l’indomani; io avevo deciso di non andare: non riuscivo a sopportare il peso del posto. Nell’inquietudine della notte, però, mi resi conto che avrei potuto tollerare ancora meno una mia diserzione dalla vita ingloriosa di Biserka; così, al mattino presto, li seguii.
Appena entrati nell’edificio, incontrammo un vecchio, tracagnotto e lercio, con i pantaloni semiabbassati e sopra soltanto una canottiera, in un dicembre già con vari gradi sottozero; abitava in una stanza a piano terra e ci fece entrare, ma solo per pochi minuti: il tempo di intravedere – vi regnava una penombra fitta – anche lì l’immondizia sommergere la camera; il tempo per chiederci dei soldi; il tempo, infine, di accorgermi che sua moglie, una vecchia bassa e taciturna, aveva a un piede una catena di ferro fissata a un anello al muro.
Non rispose alle nostre domande, quell’uomo; disse solo che viveva lì da dieci anni e che potevamo tornare in un altro momento, possibilmente con del denaro. Aveva fretta. Uscì dalla stanza insieme a noi, chiudendo la porta – dietro la quale restava la donna incatenata – con un pesante lucchetto. Ecco cos’era l’inferno del piano terra.
Salimmo la rampa di scale, dove Biserka ci aspettava, con il suo sorriso sdentato. La seguimmo all’interno del “buco” in cui viveva, uno stanzone talmente gremito di roba da risultare minuscolo; ad affollare la camera, c’erano una grande poltrona che fungeva da tavolo e da letto, una stufetta rotta, dei tappetti lerci per gli escrementi dei suoi due gatti, visibilmente malati, e ancora bambole, stracci, un grande poster raffigurante Tomislav Nikolić (Presidente della Repubblica di Serbia), vecchi giornali, bottiglie di plastica disseminate ovunque, chincaglierie di ogni sorta raccolte dalla strada e accumulate negli anni. Oltre all’aria – appestata a causa della serranda interamente abbassata ormai chissà da quanto tempo – mancava lo spazio per muoversi, dentro quel buio.
Biserka fece accomodare me in poltrona e lì, sotto la luce di un lumino fioco fioco, iniziò a raccontare una storia comune e terribile.
Cadeva l’inverno del 1999 e infuriava la guerra, quando un mattino, dalla finestra, Biserka vide i paramilitari albanesi assalire la chiesa, dirimpetto alla sua abitazione. Non ci fu abbastanza tempo, né per lo sgomento, né per la fuga: pochi istanti dopo, alcuni di loro, buttando giù la porta a calci e a spallate, irrompevano nella sua vita. Il marito di Biserka era fuori – in seguito, apprese che, nello stesso momento, a lui venivano inflitte torture fisiche – e, oltre a lei, in casa c’erano una figlia di quattro anni e un figlio di pochi giorni soltanto.
I paramilitari li trascinavano in chiesa – dove giacevano già i corpi straziati di alcuni uomini, tutti civili – e uno di questi, senza proferire parola, puntava la canna della pistola al collo del figlio appena nato, mentre un altro le strappava dalla mano la figlia per mostrarle l’inesorabile spettacolo della fine che sarebbe toccata ai preti lì presenti. E fu proprio sotto lo sguardo di quella bambina che l’assalto dei fucili offese e ferì i corpi dei preti, ma senza finirli: il massacro non doveva durare poco, per nessuna delle vittime di quel gioco alla morte; gioco infame che, oltre a violarle l’infanzia negli occhi, avrebbe gettato in lei il seme della follia.
Dal tremendo agguato riuscirono a salvarsi tutti e tre, ma io, di fronte al pianto rotto di Bisenka, non osai rivolgerle domande superflue su come fossero riusciti a scampare; non importava e, dentro di me, non credevo affatto che fosse stata vera salvezza: quel fatidico giorno, a distanza di quattordici anni, dura ancora oggi, senza scampo alcuno, nel suo petto.
Biserka ritrovò il marito, cui avevano mutilato tre dita, però non possedevano quasi più nulla: persa la casa, perso il lavoro, persi i parenti e gli amici, cosa restava e come sfamare due bambini, come continuare a crescerli? Erano disposti a tutto, tutto, purché i loro figli fossero al riparo, non solo dai crampi della fame, ma da ogni miseria umana. Venne allora la decisione più difficile: darli in affidamento, in Serbia. Così Biserka, un mattino, consegnò i suoi figli a terze persone e perse tutto, a eccezione della memoria.
Oggi vive ancora nel luogo in cui si insediò, insieme al marito, nel 2004. Agli altri rifugiati il governo serbo ha dato un appartamento; anche per lei ne era stato trovato uno, peccato però che sia stato venduto ad altri prima che potesse entrarci.
Quello che Belgrado concede a lei e al marito equivale complessivamente a meno di 100 euro al mese. Il cibo se lo procurano una volta al giorno, in tarda mattinata, alla mensa dei poveri, insieme ad altri rifugiati. Il resto è miseria nera.
Come la figlia, anche Perla quel fatidico giorno si ammalò di un dolore al petto, che nella trascuratezza è divenuto malattia. Dovrebbe essere operata d’urgenza, ma il medico si rifiuta: le abiette condizioni in cui vive non le permetterebbero di superare i lunghi postumi dell’intervento.
È da quattordici anni che lei si appella al partito serbo, al quale è a tutt’oggi iscritta, per riavere una casa, una vita e i suoi amatissimi figli che non può nemmeno rivedere, non avendo i soldi per andare a trovarli.
«Le ha mai risposto il suo partito?», le chiedo.
«Non ancora», mi risponde senza alcuna malizia, facendo della fede nel domani la sua più grande benedizione dell’oggi.
Lo dicevo all’inizio: questa è una storia piuttosto comune, tra i serbi del Kosmet, ma a essere davvero terribile, oltre al fato, è la calma che promana Biserka – dal sorriso sdentato, sempre presente e paziente – a lungo esercitata nella sconfitta di un eterno presente.
Così non sono riusciti a spezzare Biserka, ma tanta è la vastità del suo cuore che ci tentano ancora.

 

2° parte

Dicono che i božur – fiori scarlatti per il sangue versato da ogni martire e raccolto, petalo dopo petalo –sboccino solo nelle sacre terre del Kosmet e si mostrino esclusivamente in estate. Così dicono. Io, però, nonostante l’incedere dell’inverno, ho scovato nuovi fiori, altrettanto benedetti: donne e uomini, fieri e generosi.
Li ho incontrati nelle remote enclavi, in cui sono stati reclusi i Serbi – i miei fiori – circondati unicamente da Schipetari e ferocia. Si tratta per lo più di agglomerati di casupole, senza il manto stradale, senza lampioni e a volte persino senza passanti. Che siano situati dietro l’angolo di una città o inerpicati sulle montagne, sono privi di tutto: mancano l’acqua e la luce, tagliate arbitrariamente dal governo di Pristina (anche se gli abitanti pagano le bollette), mancano gli ambulatori medici e gli ospedali, per i piccoli mali come per le urgenze più gravi – a Priluźje c’è un’unica ambulanza per 4.000 residenti – manca il lavoro, non essendoci strutture appropriate; mancano le scuole, i centri sportivi e pure dei semplici bar, affinché la vita, anche nello svago, possa assomigliare di più a se stessa. In certi casi, tanto sono sperdute queste esistenze, mancano perfino le botteghe in cui comprare i beni primari, cibo e ancora acqua: occorre allora percorrere dieci chilometri a piedi – ovviamente, i mezzi di locomozione mancano – per andare a fare incetta del necessario o per incontrare una volta al mese il medico, che a proprio rischio e pericolo affronta la strada, lungo i territori occupati, per visitare i pazienti in una stanzetta angusta e fredda, sprovvista di attrezzatura medica, fatta eccezione per lo sfigmomanometro. Peggio del peggio, però, ai “Serbi delle enclavi” – così dissimili per destino da quelli di Mitrovica nord – manca la libertà più sostanziale, vale a dire lo spazio: di giorno non possono permettersi una passeggiata fuori dalle loro riserve e, al calar della sera, in molte enclavi è pericoloso anche solo uscire dalle case, a causa dei possibili agguati da parte degli Schipetari, che invece entrano ed escono dalle enclavi indisturbati. Una prova di quanto ho detto? A Priluźje, il giorno prima del mio arrivo, sono state rinvenute tre bombe in un posto riservato ai giochi dei bambini; sebbene sia stata chiamata la polizia, è arrivata la KFOR, impossibilitata, però, a rivolgere domande e, tanto meno, ad aprire un’inchiesta sull’accaduto.
Dopo la Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, in Kosovo e Metohija non esiste più la polizia serba, ma soltanto quella kosovara (KPS), le cui unità sono composte da un ininfluente 15% di agenti serbi e di etnie varie (spesso corrotti) e da un 85% di Schipetari. Così, a causa di questo accordo “diplomatico” e “certamente democratico”, il popolo serbo – privato del sacrosanto diritto ad avere una propria forza militare, come tutti i Paesi che hanno votato la Risoluzione e che fanno della libertà e della sicurezza il loro santuario laico – è in balia di barbari e di barbarie.
A Čečevo, situata a pochi chilometri da Mitrovica, un mese fa alcuni schipetari, conosciuti di nome e di fatto, in pieno giorno hanno tentato di rapire la giovanissima nipote di un contadino serbo, ma i genitori della ragazza non hanno sporto denuncia. Perché? Per il timore di ritorsioni; infatti, dicono, non vale nemmeno la pena correre ulteriori rischi, tanta è la connivenza della polizia kosovara con i criminali.
Sarebbe un grave errore pensare che si tratti di episodi sporadici: è la dura e cruda quotidianità di gente letteralmente abbandonata a se stessa, questa, checché ne dicano il governo di Belgrado o le buone quanto pericolose intenzioni della Comunità Europea.
Quanti luoghi terribili ho avuto modo di vedere e quanti volti erano già storia a sé: a Gračanica, inerpicandosi per una lunga salita fangosa, ci si imbatte in ventiquattro container circondati da una rete di metallo, destinati più ai gipsy che ai rifugiati serbi. Lì, ho avuto modo di conoscere una donna, che vive insieme al figlio, alla nuora e al nipote di un mese, in uno spazio di due metri per due. Da dieci anni abita in quel loculo, condivide l’intimità con la sporcizia – c’è un bagno per ogni dieci container – e non svolge il suo lavoro di giornalista, né qualsiasi altro, a causa della massiccia disoccupazione. Da dieci anni abita nella disperazione, divisa a metà con i suoi “vicini di guerra” – ex avvocati, ex professori, ex militari – che non esistono più per nessuno. Alcune di queste persone, costrette a vivere in simili condizioni, nel tempo si sono date la morte; l’ultimo, un signore di sessant’anni, si è impiccato tre mesi fa.
Fuori da quell’accampamento, a un centinaio di metri di distanza, sono state costruite delle palazzine per i reduci serbi più “fortunati”. In una di queste, incontro Milanka, una vecchia signora dai candidi capelli raccolti in uno chignon, vestita a lutto. Il marito e il figlio, insieme ad altri uomini, glieli hanno ammazzati una mattina del 1999 – soltanto il giorno prima, per il suo immutabile dolore – mentre andavano a lavorare i campi. Sono stati legati ai trattori, torturati e infine trucidati dagli Schipetari. All’ospedale di Pristina, il referto dell’autopsia ha decretato che si erano scannati tra loro.
Dopo ben tredici anni passati nei container, a Milanka è stato dato un appartamento. Oggi sopravvive con 60 euro, ricevuti dal governo di Belgrado, e si domanda cosa ne avverrà della figlia, quarantenne e malata, quando lei non ci sarà più. Intanto, il suo sguardo vaga nel salotto quasi spoglio e gelido.
«Stavamo meglio prima», racconta Milanka, «Non abbiamo denaro per permetterci dei mobili, per comprarci una stufa, per “fare casa”. Prima ci bastava la nostra povertà – avevamo un divano, un tavolino e qualche vestito – per riempire il nostro container, i nostri fiati per scaldarlo; che ce ne facciamo, ora, di questo appartamento inutilmente grande?».
A Svinjare, a nord del Kosmet, esiste un villaggio immerso nella campagna, in cui, prima del sanguinoso attacco del 2004, vivevano numerose famiglie serbe, poi uccise o scacciate dalla furia schipetara; adesso, laggiù, abitano unicamente Vladimir e Darinka Jović, una coppia di sposi che ha deciso di trascorrere proprio lì «i giorni che Dio vorrà per noi».
Durante l’assedio, oltre alle forze militari albanesi, erano presenti anche quelle francesi e marocchine, ma in difesa dei Serbi, in netta minoranza; però non fecero nulla, tranne che consigliare loro di scappare, finché erano ancora in tempo. Non potevano difenderli.
«Io non ce l’ho con quei ragazzi della NATO, sono stato anch’io un soldato e conosco il loro cuore. Il primo dovere è obbedire agli ordini, anche quando questi non corrispondono alle proprie convinzioni», perdona Vladimir, mentre gli occhiali, privi di asticelle, gli cadono sulle gambe, «e poi posso dire che mia moglie è davvero la più bella di tutto il villaggio!». Ride come un ragazzo, lui, ma, al nostro commiato, non dimentica l’onore di essere uomo e serbo: «Abbandonare la mia terra sarebbe come spezzare l’amore di mia madre; quale figlio potrebbe permettersi un simile delitto?».
Potrei parlare di Suvi Do, altra enclave in cui sono rimaste solo quattro famiglie. I pochi bimbi di quel villaggio vanno a scuola con un pullmino, preso giornalmente a pietrate dai giovani schipetari, allevati a pane e odio. Sono proprio le ultime generazioni a non perdonare la presenza serba; bruciano i raccolti, rubano le bestie, occupano abusivamente case e terreni – dieci ettari solo negli ultimi mesi, con il beneplacito di Pristina – e guai a uscire quando fa buio: quel posto diventa terra di nessuno.
A Velika Hoça, ho conosciuto Daca, una bella ragazza dagli occhi verdi e dalla risata ancora argentina, nonostante le abbiano ammazzato il padre senza una ragione particolare: bastava, ieri come oggi, che fosse serbo. Gli assassini sono due fratelli, a piede libero. Dragana Zečević, l’unico giornalista che ha bussato alla loro porta per fare luce sull’accaduto, è stato ucciso.
Daca oggi vive con la madre, un fratello adolescente e una formidabile baba, che pur tutta curva e malandata, va instancabile spasso su e giù per il villaggio.
A poca distanza da Daca, vive Živana, un’altra baba centenaria, cui hanno ammazzato il figlio; lei si considera fortunata: ne hanno ritrovato il corpo intero; lo stesso non può dirsi per sua cugina, nonché vicina di casa, che scovato quello del proprio figlio tanto maciullato da non poterlo riconoscere: gli avevano strappato i denti, gli occhi, tutti gli arti. Dovreste vederla, questa minuta baba, con un cancro che le gonfia a dismisura il collo; dovreste vederla, questa infranta baba, che trascorre le sue giornate a sbirciare dalla finestra in perenne attesa di chi non tornerà più; dovreste vederla, questa dolcissima baba che, nell’abbraccio, ci ringrazia per essere andati ad ascoltare la storia di suo figlio, per averlo fatto rivivere ancora una volta.
La miseria e l’abbandono in cui sopravvivono questi serbi sono le ultime afflizioni, le ultime offese, che tuttavia sembrano non sfiorarli affatto; sono divenuti più forti di ogni contingenza: hanno perduto le uniche cose vere – gli affetti e il domani – e cosa cambia, in fondo, tra l’avere acqua e luce e non averle, per i loro petti troppo arsi e bui? Cosa cambia, se si può mangiare soltanto una volta al giorno, quando è impossibile “saziare” il vuoto procurato dalla morte gratuita e spietata di un lungo amore?
Eppure, eppure, in questa sofferenza e in questi terribili stenti, ho trovato uomini e donne capaci di totale generosità e accoglienza, un lusso che forse chi ha tutto, ma proprio tutto, non riuscirebbe mai permettersi.
A Gorazdevac, Pec, Zupim Potok, Štrpce, Brezovica e in tutte le enclavi in cui sono stata, mi hanno sempre, e sottolineo sempre, accolta con il calore e la gioia di una tavola imbandita a festa; hanno inventato, dove non c’era spazio per uno spillo, un giaciglio per la notte sotto caldissime coperte di pecora e mi hanno fatto dono di oggetti personali – un’icona, un maglione cucito a mano, delle mele o quant’altro – come se ne avessero avuti in abbondanza. Mai una volta che abbiano chiesto qualcosa in cambio e mai, mai, che sia mancato un sorriso, in quegli occhi che troppo hanno pianto.
Così sono i miei benedetti fiori del Kosmet.

 

3° parte

Peggio ancora delle terre occupate, dei civili massacrati e delle vite esiliate è forse “l’uccisione dei morti”, il delitto più efferato. L’odio degli Schipetari, cui non è bastata la vittoria momentanea per saziarsi, si rovescia persino su chiese e monasteri, dove l’uomo è a tu per tu con Dio e i santi convivono con le preghiere.
Sono troppi, i luoghi di culto ortodossi, risalenti al XIII e al XIV secolo, distrutti dal 1999 a oggi – cioè da quando la NATO, garante della pace, presidia il Kosovo e Metohija – e sono centinaia, i camposanti resi irriconoscibili dall’assedio dei picconi e dal furore delle pale, che scavano persino nell’inviolabilità del riposo eterno.
Il grande cimitero di Peć, dopo essere stato raso al suolo, viene usato come immondezzaio dagli Schipetari, mentre nel sepolcreto di Priluzje è stato utilizzato dell’esplosivo per far saltare in aria resti e ricordi. È lungo, l’elenco dello sfacelo: Istok, con le sue cento lapidi schiantate; Prizren, in cui solo negli ultimi mesi sono state profanate altre cinquanta tombe; Vučitrn, in cui si è costretti a camminare calpestando le macerie delle lapidi sparpagliate lungo il campo, e ancora Kosovo Polje, Milosevo, Plemetina, Klokot… Quanti, quanti “morti ammazzati” più e più volte.
Alla distruzione delle pietre, spesso si aggiunge il trafugamento di quei corpi senza pace – persino delle sole ossa – affinché ai vivi non resti nulla del passato, oltre che del presente, e le famiglie dei defunti non possano più raccogliersi intorno alla tomba del proprio caro, portandogli in dono, per consuetudine antica, cibo e rakija, fiori e sigarette.
Recarsi al cimitero per un serbo del Kosmet, a volte è impossibile, tanto è il rischio di rimetterci la pelle: è questo il caso, per esempio, di quello ortodosso, situato nella zona sud di Mitrovica, occupata dagli Schipetari; altre volte, invece, lo si può fare, ma solo scortati dalle Forze dell’Ordine. È facile, allora, immaginare quanto sia penoso dovere essere “accompagnati” da una guardia kosovara, vale a dire dall’invasore, che immobile guarda i parenti togliere dalle tombe le erbacce ormai alte e gli escrementi dei maiali (portati a sfregio dagli schipetari), mentre tutt’intorno i passanti ingiuriano e sbeffeggiano quei serbi così profondamente soli.
Non sono pochi coloro che hanno deciso di portare i propri defunti in Serbia; è comprensibile la stanchezza, dopo quindici anni di vessazioni impunite, ma diventa una resa di fronte a quegli stessi morti che si vorrebbero proteggere.
Porto con me la lezione di un prete, padre Žika – rifugiatosi a Štrpce in seguito agli attacchi del 1999 – il quale, nel bel mezzo del secondo feroce attacco del marzo 2004, decise di schierarsi dalla parte della chiesa e del camposanto di Uroševac. Egli voleva salvare non la propria vita, ma un modo di vivere, così ritornò a casa, insieme alla moglie e ad altre due famiglie, unici reduci in una città che prima della guerra contava 40.000 serbi.
La dimora di padre Žika è la chiesa di sant’Uroš: esattamente di fronte, a bella posta, è stata costruita una moschea bianca, da cui svetta il canto del muezzin a fare incetta di recenti adepti.
La piccola e buia chiesa di sant’Uroš nel corso degli anni è stata ferita, incendiata e vilipesa. Sempre e soltanto dalla mancanza di pietas. Vae victis. Oggi, crudele ironia della sorte, a farle da guardiano è proprio un poliziotto schipetaro, che però non ha il compito di riparare il prete quando va in giro per la città e i ragazzi gli sputano addosso e gli scagliano pietre, o quando va a trovare il suo cimitero, all’ombra di un enorme centro commerciale, costruito a sfregio proprio lì. Non c’è nessuno, accanto a questo padre, mentre nel freddo cura il camposanto – in cui hanno trafugato tre corpi e abbattuto molte lapidi – come fosse un meraviglioso giardino di rose. Lui, però, ha fatto la sua scelta e non ha più timore: «Dobbiamo la vita ai nostri avi, è lì che abita l’Eterno ed è lì che il nostro cuore non muta».
Porterò sempre con me quel mattino di dicembre e di nebbia che avvolgeva padre Žika, così solo, così forte e così pieno di grazia.
È chiaro che la distruzione di chiese, santuari e camposanti è non soltanto un modo per offendere e cancellare l’atavica presenza dei Serbi in Kosmet, ma è anche e soprattutto un’arma per colpire il petto di ogni serbo, mirando esattamente al centro, al cuore.
Nella bandiera della Serbia, sull’aquila bicefala è raffigurata una croce con quattro “C” in caratteri cirillici; questo stemma significa “Samo Sloga Sbrina Spasava” (Solo l’Unità Salva i Serbi) e solo viaggiando in lungo e in largo per il Kosovo e Metohija si può capire fino in fondo come la giuntura e la vera unità di questo popolo sia Dio.
Il Kosmet non è affatto una terra qualsiasi; basterebbe citare la storica “battaglia della Piana dei Merli” per rintracciare l’antica fierezza negli occhi dei più giovani.
Basta però anche il presente nella sua quotidianità: non c’è casa, container o stanza, per quanto poveri e malandati, in cui non campeggino delle icone, né ragazzi o vecchi, per quanto affranti e sperduti, che non si segnino tradizionalmente nel combaciare di tre dita di fronte a Cristo.
Bastano i monasteri e i monaci – gli stessi che in tempi di eccidi hanno dato rifugio a tanti albanesi e che oggi, pur assediati e costretti alla scorta, restano comunque aperti all’ospitalità senza nulla concedere all’ira, in virtù di quella pietas che all’invasore manca – a segnare la geografia del luogo. Monaci-guerrieri, dalle spalle larghe e dalle barbe incolte, in perenne cammino verso le enclavi per portare, più che parole di conforto, fatti: cibo e vesti, innanzitutto, ma anche improvvisati parchi giochi per la gioia dei bimbi o tralci di vite per ricreare lavoro e speranza nell’uva che verrà alla luce e si farà vino; un buon vino. Monaci coltissimi, che vivono come illetterati e poveri di spirito in semplicità di vita.
Chissà perché il Papa, prodigo di esterofilia e di parole di conforto – lui sì – non dice nulla sulla situazione disperata in cui versano i Serbi del Kosovo e Metohija. Perché non si scaglia contro la Comunità Europea che, dopo avere legittimato il potere temporale di criminali e assassini, manda i propri attendenti dai rifugiati serbi per assegnare loro un’aspirapolvere o, beffa delle beffe, una “mucca di conforto”, anche se non hanno la terra per allevarla o se gliela sgozzeranno il giorno dopo? Perché, a pochi passi dall’Italia, nessuno solleva un polverone per le feroci discriminazioni civili che flagellano un popolo? Non sarà che l’Europa, insieme al suo Pontefice, ha perso l’autorità spirituale per sostenere la verità?
Il Kosmet, intriso del sangue dei martiri e delle loro benedizioni a fior di labbra, è la Gerusalemme cui si rivolgono tutti gli ortodossi. Prima ancora del patriottismo, prima ancora dei giacimenti minerari, prima ancora degli interessi euro-atlantici, questa è una terra sacra e solo mantenendone “alta” la visione può esserci la rivincita dei Serbi; viceversa, è destinata a diventare un fardello diplomatico e sociale. Ecco perché è da scongiurare ogni forma di laicizzazione da parte dei politici di Belgrado, che non devono compiere il peccato capitale di smarrire l’origine, vale a dire la meta.
Solo presso l’anteriorità, può darsi la posterità. «Solo il cuore non muta».


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