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LE ORIGINI INTERNE DELLA STRATEGIA GEOPOLITICA STATUNITENSE

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“[…] ma se dobbiamo usare la forza, è perché noi siamo l’America: siamo la nazione indispensabile.”

Le parole di Madeleine Albright, Segretario di Stato durante la seconda amministrazione Clinton, sono state analizzate, criticate, citate in innumerevoli articoli, saggi e libri sugli Stati Uniti. Sebbene estrapolata dal contesto in cui venne usata, questa frase descrive con grande precisione e puntualità non solo il pensiero comune retrostante la politica estera statunitense, ma anche e soprattutto una visione del mondo, unica nella storia delle relazioni internazionali contemporanea.
È inoltre un buon punto di partenza per ripensare la strategia geopolitica degli Stati Uniti, visualizzandola come prodotto di processi più interni che internazionali. Le teorie classiche delle relazioni internazionali considerano solo Stati e organizzazioni come agenti che interagiscono con la struttura internazionale. Poco spazio è dedicato all’analisi dei processi formativi di politica estera, considerata variabile indipendente e non rilevante a fini esplicativi e di teorizzazione. Utilizzando invece l’analisi della politica estera si può comprendere la genesi e la natura della politica estera di un singolo Paese, e come agisce sul campo internazionale. Esaminando le variabili che intervengono nei processi decisionali, si può interpretare l’azione esterna degli Stati Uniti, e la loro postura geopolitica, come risultato di dinamiche e modelli comportamentali domestici. Si può dunque ipotizzare che, utilizzando le teorie dell’analisi della politica estera, e particolarmente il modello della rivalità burocratica e il modello del processo decisionale elitario, si possano meglio comprendere le difficoltà che gli Stati Uniti incontrano nell’operare un riassetto strategico e geopolitico che vada oltre schemi decisionali residui della Guerra Fredda.

Uno di questi residui cognitivi ed emotivi è perfettamente riflesso nelle parole della Albright: gli Stati Uniti si sono assunti il compito di “poliziotto del mondo”, e nella coscienza collettiva statunitense la percezione di essere “eccezionali” è forte e ben radicata. L’eccezionalismo americano è un concetto fondamentale per l’identità statunitense: un Paese nato da una guerra di liberazione coloniale non può non essere destinato, agli occhi dei cittadini, a essere un modello di libertà per il resto del mondo e ad avere la missione di rimodellare il mondo a propria immagine. È da quest’idea di “eccezionalità” che deriva la propensione “missionaria” degli Stati Uniti di promozione della democrazia; né d’altro canto è sorprendente che da essa derivi anche un’enfasi persistente sulla propria supremazia nell’ordine globale. Le ultime due affermazioni sono tra di loro collegate: un Paese eccezionale, che, secondo l’ottica occidentale, godrebbe del miglior sistema democratico del mondo, ha non solo la responsabilità di essere un buon esempio per gli altri Paesi, ma ha anche la responsabilità di controllare e sorvegliare l’ordine internazionale. Non è dunque un caso che in ogni National Security Strategy, il documento che delinea l’indirizzo strategico statunitense, obiettivo costante è il mantenimento dell’influenza globale (intesa sia come soft power che come tradizionale proiezione del potere) degli Stati Uniti; influenza che garantirebbe, dunque, autorità agli Stati Uniti e permetterebbe loro di legittimare le proprie azioni a livello internazionale.

Questo particolare modo di concepire se stessi e la realtà internazionale spiega l’atteggiamento unilaterale che gli Stati Uniti privilegiano negli affari internazionali: gli interventi internazionali, le guerre in Iraq e in Afghanistan, la gestione ambigua e discontinua della questione iraniana, e una certa propensione a considerare con distacco le regole e normative imposte dalla struttura internazionale. Certi atti di politica estera possono essere interpretati come sintomi di imperialismo o effetti di una cultura politica realista; si può invece ipotizzare che la costanza e la coerenza di tali atti sia dovuta a un mancato ripensamento di schemi cognitivi e interpretativi. Ciò avviene a causa di modalità di decisione disfunzionali che hanno luogo a livello dell’esecutivo, e in particolare nei gruppi e dipartimenti burocratici preposti a definire la politica estera statunitense.

Molto è stato scritto in tempi recenti sui cosiddetti BRICS, sulla loro ascesa nell’arena internazionale, sul ruolo che in essa possano avere, e sull’incertezza che Paesi come la Cina, la Russia o anche il Brasile possano accettare di entrare a far parte di una struttura internazionale la cui architettura è di origine prevalentemente statunitense. Questo dibattito è spia di un processo in atto, di cui difficilmente si potrà invertire la rotta: il passaggio da un sistema unilaterale a un sistema multilaterale. Questo passaggio comporta sicuramente una nuova dimensione diplomatica, che sia inclusiva e negoziale, nell’approccio agli affari internazionali; potrebbe comportare una ridefinizione delle norme che ne regolano lo svolgimento. La politica estera statunitense nell’ultima decade ha segnalato una certa confusione riguardo a questo processo: la “dottrina Bush” era su un versante completamente unilateralista, mentre l’amministrazione Obama ha prodotto dei cambiamenti, ma non ha chiarito il ruolo degli Stati Uniti in un nuovo mondo multilaterale. La mancanza di chiarezza sul ruolo statunitense (nazione indispensabile o partner multilaterale?) ha impedito un serio ripensamento della postura geopolitica e strategica degli Stati Uniti: in questo senso il pivot verso l’Asia è la ripetizione di un vecchio schema, che ha come obiettivo il mantenimento di una posizione di supremazia, mascherato da cambiamento strategico. Gli Stati Uniti si muovono sullo scacchiere internazionale secondo una logica da Guerra Fredda, che impone supremazia militare ed economica e strategie regionali tese a proteggere incondizionatamente i Paesi alleati. Cosa impedisce un ripensamento di questo modello anacronistico di concepire le relazioni internazionali?

La fine della Guerra Fredda non ha solo lasciato gli Stati Uniti nella posizione di unica superpotenza globale, ma ha riportato in vita conflitti etnici, nazionali e religiosi rimasti sopiti per oltre quarant’anni. Questa situazione di micro e macro-conflittualità regionale ha lasciato perplessa una nazione entrata nella scena internazionale con la prima grande guerra, e divenuta superpotenza dopo la seconda: l’approccio statunitense è sempre stato globale, non regionale. La difficoltà nell’interpretare fenomeni vecchi e nuovi, slegati da un contesto di balance of power internazionale, ha causato una grande confusione strategica negli anni ’90, confusione che è solo peggiorata dopo l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001. Incapaci di interpretare il terrorismo come un fenomeno tattico, e non strategico, gli Stati Uniti lo hanno sostituito al comunismo come nuova minaccia esistenziale e hanno dato il via alla disastrosa politica mediorientale di inizio millennio. Il contesto mediorientale si presta bene all’analisi di una politica estera restia a ripensamenti strategici e ideologici, poiché alla difficoltà di creare un nuovo ruolo per gli Stati Uniti nella regione si aggiunge un radicato “orientalismo” come ulteriore complicanza. Il concetto di orientalismo, sviluppato dal teorico post-colonialista Edward Said, ripensa la contraddizione tra Est e Ovest interpretandola come il risultato di una distorsione intellettuale operata da scrittori, teorici e politici occidentali, i quali hanno contribuito a creare una percezione dell’Oriente (e del Medio Oriente) come insieme di realtà “altre”, stereotipate e immutabili. L’orientalismo americano, ben presente nella coscienza collettiva dei gruppi decisionali, segue questa teorizzazione classica e vi aggiunge elementi di profonda sfiducia e diffidenza nei confronti della religione islamica.

Vecchi schemi cognitivi sono dunque vivi e persistenti nella politica estera statunitense. La difficoltà nel sostituirli trova una spiegazione nel particolare modello decisionale adottato dagli Stati Uniti, modello che esalta la funzione dell’esecutivo, in primo luogo nella figura del presidente, e ne incoraggia la natura elitaria, favorendo dunque fenomeni come rivalità burocratiche e “groupthink”. Combinati con la pervicacia del Congresso nella difesa della natura “eccezionale” degli Stati Uniti, questi modelli possono gettare luce sulle modalità disfunzionali con cui la politica estera viene decisa e dunque, di conseguenza, su quanto la stessa politica estera sia, una volta implementata, fallace o fallimentare.

Il concetto di groupthink è stato elaborato da Graham Allison nel 1969, e prende come esempio la crisi missilistica cubana per esaminare le dinamiche decisionali in un gruppo elitario. In questo modello, gli individui che operano in un gruppo ristretto tendono a conformarsi al pensiero maggioritario, eliminando l’elaborazione critica e la valutazione oggettiva dei dati. Diverse variabili intervengono in questo processo, e il suo risultato dipende anche dalla personalità del presidente, dall’accessibilità o meno di agenti esterni al gruppo, dal tipo di gerarchie che si stabiliscono e dalla sua struttura interna. Questo modello è utile soprattutto in caso di crisi internazionali, dove il potere è nelle mani del presidente e del suo entourage, che consiglia e fornisce informazioni. La presenza di groupthink è più probabile in gruppi coesi, ed è stato notato che il modello si adatta bene all’esecutivo statunitense. Ovviamente i consiglieri presidenziali sono stakeholder nel gruppo: ognuno di loro avanza la proposta che meglio si accorda con i propri interessi (siano essi politici, economici, ideologici, personali) ed entra in conflitto con gli altri. La soluzione di questo conflitto può essere il compromesso, o la paralisi decisionale, in casi di minore coesione interna. Se il gruppo è invece più coeso, la soluzione di politica estera è spesso una decisione maggioritaria. Dunque la conformità, o il minimo comun denominatore, determinano la politica estera: in entrambi i casi il dissenso e la ricerca di nuovi metodi e interpretazioni sono ostacolati dal groupthink.

Il modello della decisione politica elitaria spiega molte delle decisioni prese dagli Stati Uniti riguardo la regione mediorientale. Nel suo ultimo libro, Fawaz Gerges pone l’accento sulla cronica mancanza di esperti di area nell’entourage presidenziale. Ciò è vero per ogni area del mondo, e dunque anche per il Medio Oriente; cosa comporta per lo sviluppo di una politica estera efficace? Gli esperti di area conoscono le sfaccettature e le dinamiche di una regione, e sarebbero dunque in grado di fornire una valutazione corretta delle informazioni e di suggerire risposte complesse a problemi complessi. Rappresentano però una parte minoritaria dei gruppi decisionali, dove il prevalere di un processo decisionale conforme impedisce la ricerca di nuove soluzioni e lo sviluppo di nuove strategie.

Al modello del groupthink va aggiunto il modello delle rivalità burocratiche. In presenza di rivalità burocratiche, la politica estera è la soluzione o la mediazione di un conflitto tra diversi rami e dipartimenti governativi: ciascuno di essi ha un’idea precisa, e diversa, di cosa sia l’interesse nazionale e di come dovrebbe essere perseguito: da queste differenti definizioni nascono i conflitti burocratici. Il Congresso, il Dipartimento di Stato, il personale diplomatico, la comunità dell’intelligence sono spesso in conflitto con e di fronte all’esecutivo per quanto riguarda la politica estera. Un facile esempio è l’approccio alla questione del nucleare iraniano: in questo caso, il Congresso, dove la pratica del lobbismo è diffusa (in questo caso fu forte la spinta all’intervento da parte dell’American Israel Public Affairs Committee) fece pressioni per un intervento armato, durante l’amministrazione Bush, mentre la CIA e il Dipartimento di Stato si espressero duramente contro questo tipo di soluzione. Le rivalità burocratiche, in ogni caso, emergono più facilmente in contesti di rilevanza minore, quando è assente la pressione dettata dall’urgenza di una crisi internazionale. Questo tipo di modello può essere utilizzato per spiegare i contrasti che spesso dividono esecutivo e Congresso, e può spiegare l’estrema riluttanza da parte di quest’ultimo a partecipare alla stesura di norme internazionali, e di conseguenza a rispettarle. Innumerevoli trattati, che diplomatici statunitensi hanno contribuito a redigere, non sono mai stati ratificati dal Congresso, una mancanza giustificata da una presunta minaccia alla sovranità nazionale degli Stati Uniti. Sembra dunque logico affermare che il Congresso crede prioritario il mantenimento dello status di nazione super partes nel consesso internazionale.

Unendo le due teorie, emerge la grande complessità del processo decisionale di politica estera statunitense. La rivalità tra Congresso ed esecutivo, aggravata nell’ultimo decennio dall’inasprimento della lotta partitica, è parte della difficoltà nel generare una postura geopolitica corretta: la supremazia statunitense e la superiorità alle regole internazionali mal si adattano a uno scenario globale multilaterale. A questo malfunzionamento politico si aggiungono gli effetti del groupthink e l’impatto deviante che hanno sull’elaborazione di una politica estera efficace e dinamica. Conformità, mancata elaborazione critica, difetti di informazione e persistenza di schemi cognitivi usurati guidano la politica estera seguendo schemi di comportamento familiari e non problematici. Nuove soluzioni, originate da schemi cognitivi rinnovati, non sono né cercate né trovate.

La strategia geopolitica statunitense può dunque essere interpretata come prodotto di processi domestici. È a causa loro che gli Stati Uniti faticano a ridefinire l’idea di se stessi e del loro ruolo nel mondo e, di conseguenza, ad adottare una nuova visione strategica che tenga conto delle esigenze e dei problemi di un mondo multipolare.

*Giulia Micheletti è laureata in Geopolitics and Grand Strategy presso la University of Sussex


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