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UCRAINA, FATTORE INDISPENSABILE DEL RISCATTO RUSSO

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A sei anni di distanza, la Russia è stata chiamata ad affrontare una nuova minaccia ai propri confini. Nel 2008, verso la fine del mandato di George W. Bush, forze corazzate russe ridimensionarono drasticamente i deliri di onnipotenza del presidente georgiano Mikheil Saakashvili, il quale, come culmine della propria linea apolitica anti-russa, aveva attaccato le regioni autonome a maggioranza russa di Abkhazia ed Ossezia del Sud.

Come Julia Tymoshenko, anche Saakashvili aveva repentinamente scalato i ranghi del potere grazie ad una “rivoluzione colorata” modellata in base ai criteri indicati all’interno del celeberrimo manuale Sharp, patrocinata e finanziata generosamente da Washington e “preparata” sul campo dal nugolo di Organizzazioni Non Governative penetrate entro i confini nazionali. E come accadde in Georgia nel 2008 con la caduta di Edouard Shevardnadze, in queste ultime settimane le nutrite componenti russofobe che popolano le aree occidentali dell’Ucraina hanno creduto di aver individuato una falla nell’“ombrello” attraverso cui la Russia gestisce la propria sfera di influenza per alzare il tiro tentando di deporre con la violenza (fattore di diversità rispetto alla “Rivoluzione delle Rose”) il presidente democraticamente eletto Viktor Yanukovich. E come nel 2008, Mosca ha dapprima atteso pazientemente il dipanarsi degli eventi (forse in attesa della conclusione delle Olimpiadi invernali di Sochi) per poi agire con decisione impiegando le proprie forze armate. Il Cremlino ha ostentato una certa freddezza di fronte alle prime manifestazioni di Kiev, in attesa che i principali movimenti che guidavano la protesta – Ukraїns’kyj Demokratyčnyj Al’jansza Reformy (Alleanza Democratica Ucraina per la Riforma, cui appartiene l’ex pugile filo-tedesco di Vitalij Klitchko), Svoboda (Libertà), Pravi Sektor (Ala Destra) e Spilna Prava (Causa Comune) – mostrassero il loro reale volto e che la minoranza russofona prendesse una chiara posizione al riguardo. Mentre, una volta rovesciato Yanukovich, i taciti ammiccamenti alla NATO lanciati dal governo ad interim si trasformavano in dichiarazioni ufficiali, e il furore anti-russo che anima gli esponenti di Svoboda e di altre fazioni spingeva gli oltre 20 milioni di russi d’Ucraina a non riconoscere il nuovo esecutivo guidato dal banchiere Oleksandr Turchynov, Putin foraggiava le milizie filo-russe delle regioni orientali. Successivamente, Mosca ha inviato proprie armate in Crimea, incoraggiando, con la presenza diretta di personale russo, centinaia di defezioni nell’esercito ucraino (tra le quali spicca quella del comandante in capo della Marina ucraina Denis Berezovskij, il quale ha giurato fedeltà alle autorità filo-russe della Crimea) che hanno notevolmente ingrossato i ranghi dello schieramento facente capo al Cremlino. La flotta russa del Mar Nero, inviata dal Cremlino allo scopo specifico di presidiare il porto di Sebastopoli, avrebbe presentato un ultimatum (poi smentito da Mosca) alle forze ucraine in Crimea, intimando la resa.

Le manovre della NATO

Come ha correttamente osservato (tra tante esternazioni alquanto discutibili) il politologo Edward Luttwak (1), la pronta reazione del Cremlino dimostra che Mosca era preparata ad affrontare una minaccia simile, vista e considerata la straordinaria attività della NATO lungo i confini geografici russi. Nel maggio 2013 il governo di Bucarest ha infatti autorizzato Washington ad usufruire del territorio rumeno per dislocarvi missili mobili di tipologia SM-3 e, susseguentemente, il medesimo permesso è stato accordato dalla Polonia, in cui verranno installate numerose batterie di missili Patriot. Mosca ha agito con prudenza, inoltrando alle autorità statunitensi la richiesta relativa alla stesura di un trattato con la NATO che stabilisse vincoli di natura legale rispetto alle modalità di dispiegamento dello “scudo anti-missile” e specificasse numero, tipologia e luogo di installazione di missili e radar. Washington ha opposto un secco rifiuto, incaricando il segretario della NATO Anders Fogh Rasmussen di argomentare tale decisione facendo leva su concetti vacui e intangibili come la “fiducia reciproca” che dovrebbe animare il rapporto tra NATO e Russia allo scopo di archiviare definitivamente il clima “da Guerra Fredda” malauguratamente calato sullo scenario internazionale nel corso degli ultimi anni. Una “fiducia” che Rasmussen esorta Mosca ad accordare nonostante Obama abbia palesemente ignorato le rimostranze del Cremlino inviando nelle acque del Mar Nero l’incrociatore Monterey munito del sofisticato sistema di combattimento Aegis – sviluppato dalla Lockheed Martin, capace di rielaborare i dati captati dai radar incrociandoli con le informazioni contenute all’interno di un vasto database aggiornato di volta in volta – affinché prendesse parte all’esercitazione militare “Sea Breeze 2011″, congiunta con l’Ucraina. Oltre che nel Mar Nero, l’attività militare della NATO si è concentrata presso le repubbliche baltiche di Estonia, Lettonia e Lituania, con le esercitazioni “Open Spirit” del maggio 2012 e “Baltops” e “Saber Strike” del giugno 2012. Al summit della NATO tenutosi a Chicago nel maggio 2012 è stato inoltre annunciato che la «Missione di polizia aerea negli Stati baltici continuerà» (2), ossia che unità aeree a duplice capacità convenzionale e nucleare targate NATO verranno permanentemente dislocate nell’aeroporto militare lituano di Zokniai. Il Mar Baltico viene selezionato per ospitare l’esercitazione “Steadfast Jazz”, volta ad incrementare la capacità dell’Alleanza di «Effettuare più ampie operazioni congiunte di gestione delle crisi» (3). E mentre il ministro degli esteri Sergeij Lavrov condannava l’episodio, chiarendo che «La parte russa ha più volte sottolineato che non lascerà senza attenzione la comparsa nelle immediate vicinanze dei suoi confini degli elementi delle infrastrutture strategiche nordamericane che saranno considerati una minaccia alla sicurezza nazionale» (4), la Casa Bianca otteneva dal governo spagnolo l’assenso per dislocare nella base NATO di Rota, in Andalusia, navi da guerra dotate del medesimo sistema Aegis, destinate a rafforzare la presenza statunitense nel Mediterraneo e nell’Atlantico nord-orientale. A sgombrare ogni dubbio residuo in relazione alle intenzioni statunitensi è poi intervenuto il governo di Anakara, che nell’ottobre 2011 ha firmato un accordo in base al quale Washington otteneva l’autorizzazione per installare di un impianto radar di tracciamento dei missili nel distretto di Kuluncak, nella provincia di Malatya. Così come non stupisce che il Cremlino abbia risposto a tali manovre disponendo lo schieramento di missili tattici Iskander presso l’enclave di Kaliningrad, analogamente non deve destare perplessità il fatto che Mosca abbia adottato un simile atteggiamento di fronte alla crisi ucraina.

L’aspetto energetico

Le proteste indirizzate verso la Russia dalla NATO, dagli Stati Uniti e dai loro alleati non hanno inoltre assolutamente impedito alla Duma di autorizzare l’uso della forza in territorio ucraino finché la situazione socio-politica del Paese non torni alla normalità. La minaccia di disertare il G8 di Sochi, previsto per il giugno 2014, da parte di Barack Obama è stato accolta molto tiepidamente dai leader europei, rappresentanti di Paesi per i quali la Russia rappresenta un partner commerciale di prim’ordine, nonché una fonte imprescindibile di approvvigionamento energetico. È interessante notare che, nonostante la realizzazione del gasdotto Nord Stream (escogitato allo specifico scopo di aggirare Paesi politicamente instabili o nemici come Ucraina e Polonia) che collega l’enclave russa di Vyborg ai terminali tedeschi di Lubmin, l’Ucraina è comunque in grado di svolgere un ruolo importantissimo in chiave energetica, poiché il suo terreno è solcato da tubature che trasportano petrolio e gas naturale russo verso i mercati europei. Il che spiega parzialmente il forte sostegno finanziario accordato dagli Stati Uniti alle frange ribelli, che Washington ha ritenuto di poter controllare in funzione anti-russa. E spiega anche l’avanzata in Europa centro-orientale della compagnia statunitense Chevron, la quale, grazie allo sviluppo di specifiche tecnologie estrattive d’avanguardia (fracking), ha avviato i lavori di esplorazione e sfruttamento in regioni geografiche appartenenti proprio all’Ucraina occidentale, ma anche alla Romania e alla Polonia. Sempre Chevron, di concerto con ExxonMobil, ha inoltre implementato le fasi preliminari allo sfruttamento dei giacimenti “shale” off-shore del Mar Baltico. Lo sviluppo di simili giacimenti, appoggiato apertamente dall’Unione Europea dietro il pungolo statunitense, minaccia la posizione semi-monopolistica di cui gode Gazprom, grazie alla quale Mosca è in grado di esercitare una forte pressione sui centri decisionali europei. Per di più, la diversificazione delle forniture produrrebbe un calo dei prezzi, ripercuotendosi sull’economia nazionale russa basata su prezzi energetici alti e stabili.

L’inestricabile legame che unisce l’Ucraina alla Russia

L’affresco particolarmente schematico e fuorviante dipinto dal circuito informativo occidentale per delineare gli schieramenti politici ucraini, divisi manicheamente in “pro-occidentali” e “pro-russi”, ha accuratamente occultato una realtà ben differente.
Innanzitutto, la partnership con la NATO era stata stretta prima del 2004, quando al potere c’erano i cosiddetti “filo-russi”, con Leonid Kuchma alla presidenza e lo stesso Viktor Yanukovich a capo del governo. Solo in un secondo momento tale fazione, quando Yanukovich raggiunse la presidenza, Kiev dichiarò di non avere in programma l’adesione al Patto Atlantico. In secondo luogo, va sottolineato che il cosiddetto “europeismo” che molto frettolosamente è stato affibbiato ai rivoltosi ucraini non è altro che un riflesso determinato dall’animosità strisciante che un parte consistente della popolazione nutre nei confronti della Russia, come testimoniato dall’abbattimento delle numerose statue di Lenin disseminate in tutto il Paese, dal momento che Lenin rappresenta, nell’immaginario collettivo dei russofobi, la storica egemonia russa sull’Europa orientale, che nel 1917 determinò la capitolazione della resistenza menscevica impedendo l’indipendenza ucraina dalla nascente Unione Sovietica. La russofobia è indubbiamente condivisa delle frange cattoliche residenti nelle zone occidentali del Paese, che subiscono l’influenza culturale polacca e si pongono in netto antagonismo rispetto alla Russia, qualificata come storica potenza imperialistica responsabile di decenni di oppressione.
Tale orientamento politico trova l’opposizione frontale esercitata dalle corpose e preponderanti componenti russofone e ortodosse residenti nelle regioni più orientali, secondo le quali la naturale collocazione strategica dell’Ucraina, specialmente alla luce delle evidentissime affinità etno-culturali,  sia a fianco di Mosca. Esse considerano l’indipendenza nazionale alla stregua di una secessione forzata, che priverebbe lo spazio spirituale e geopolitico russo di una fondamentale ed imprescindibile componente.
L’evidente, inconciliabile discordanza tra le parti in conflitto rispecchia quindi la differente opinione che gli ucraini hanno riguardo al genere di rapporto che Kiev dovrebbe stringere con Mosca. Il che significa che la stessa definizione di identità nazionale elaborata tanto dai russofobi quanto dai russofili scaturisce da una diversa visione della Russia, e nasce proprio in contrapposizione ad essa. Il presunto anelito “europeista” che la maggior parte degli osservatori internazionali ritiene sia alla base delle sommosse non è altro che un semplice riflesso di questa profonda spaccatura, e il rinvio a tempo indeterminato della firma relativa all’associazione dell’Ucraina all’Unione Europea l’evento catalizzatore che ha portato le componenti russofobe a ritenere che la mancata adesione all’UE significasse di fatto un anschluss di Mosca nei confronti dell’Ucraina.
Tali componenti rifiutano la realtà fattuale, che dimostra in maniera limpida che l’inclinazione naturale della Russia non è affatto a favore dell’Unione Europea, ma riguarda essenzialmente lo sviluppo dei rapporti politico-economici con la Russia e con l’Unione Doganale (che raggruppa Russia, Bielorussia e Kazakistan) di cui Mosca rappresenta il principale rappresentante. I dati dimostrano infatti che l’import-export con la Russia è cresciuto in maniera significativa dal 2005, quando nel ponte di comando si trovava il tandem “pro-occidentale” Yushenko-Tymoshenko. Il che dimostra come la propaganda giornalistica e le dichiarazioni di principio dei principali esponenti politici molto raramente rispecchi e tenga conto dell’effettiva realtà fattuale. La stessa Tymoshenko, elevata a paladina della libertà dal “ceto intellettuale” capitanato da Bernard Henry-Levy, deve le proprie fortune patrimoniali ai rapporti commerciali intessuti con la Russia.

 

Figura 1

Le esportazioni ucraine verso la Russia, che nel 2004 rappresentavano solo il 14% del totale, sono arrivate a coprire il 22% nel 2013, con un aumento del 60% circa in appena nove anni. L’economista Jacques Sapir ha brillantemente segnalato come l’intensificazione degli scambi con la Russia sia accompagnata da un parallelo aumento dell’export verso Bielorussia e Kazakistan, determinando il successo dell’Unione Doganale, ben lungi dall’esprimere il proprio potenziale.

Figura 2

L’Unione Europea, invece, è in gran parte composta da Paesi investiti dalla recessione e dalla diminuzione della domanda interna, che mai e poi mai riuscirebbero a sobbarcarsi i 30 miliardi di euro richiesti dall’esecutivo ad interim di Kiev per scongiurare la bancarotta nazionale.
Mosca dispone invece delle risorse necessarie per aiutare l’Ucraina, e non a caso aveva concordato un programma di acquisto di 15 miliardi di euro di bond ucraini (congelato con la nomina del governo provvisorio) e applicato un sostanzioso sconto sulle forniture di gas naturale (che rischia di essere sospeso, assieme al flusso di gas) messe a disposizione da Gazprom. L’obiettivo, in tutta probabilità, era quello di convincere Kiev ad aderire all’Unione Doganale. Malgrado «I saldi commerciali dei Paesi dell’Unione Doganale siano negativi nei confronti della Russia [naturalmente, viste le “diversità” di stazza e dal momento che dalla Russia acquistano energia] – osserva Jacques Sapir – (…), si deve rilevare che il saldo dell’Ucraina è dello stesso ordine di quello della Bielorussia. Questo significa che l’Ucraina, come gli altri Paesi, deve cercare di sviluppare il suo commercio con la Russia. Da questo punto di vista, l’adesione all’Unione Doganale rappresenta un importante progresso per le relazioni commerciali e potrebbe, nel tempo – e prendendo in considerazione la complementarietà esistente tra industrie russe e ucraine – consentire all’Ucraina di ripianare la sua bilancia commerciale. Inoltre, uno dei motivi del sostegno dell’Ucraina orientale al Presidente risiede proprio nell’importanza di questo scambio commerciale per le popolazioni dell’Est» (5).

L’abilità di Putin

Diversamente dai loro “colleghi” statunitensi, molti rappresentanti europei a partire dal Cancelliere Angela Merkel comprendono la complessità storica e geopolitica di cui occorre giocoforza tenere conto nel momento in cui si approccia a questioni riguardanti la sfera d’influenza russa, appartenente all’Unione Sovietica fino a non molti anni fa. È per questo che l’alto funzionario cinese Wang Yi ha comunicato a Sergeij Lavrov che la Cina appoggia la posizione assunta dalla Russia, nnostante Pechino abbia numerosi interessi da difendere in Ucraina (tra i quali spicca l’acquisto massiccio di terreni fertili da destinare all’agricoltura). Ed è sempre per questa ragione, oltre che per i noti interessi economici, che proprio la Merkel ha mitigato gli slanci avventuristici di alcuni rappresentanti della NATO per imporsi come mediatrice con il Cremlino, negoziando direttamente con Putin i termini di un accordo che sembra assicurare numerosi vantaggi alla Russia. In primo luogo, Putin ha assestato un altro colpo alla credibilità internazionale degli Stati Uniti, già gravemente danneggiata tanto dall’avventurismo aggressivo che contraddistinse la politica estera condotta dall’amministrazione guidata da George W. Bush quanto dall’estrema ambiguità tradizionalmente democratica che ha raggiunto il proprio culmine con la crisi siriana, che potrebbe portare gli europei a indebolire il legame che li relega alla subalternità rispetto agli Stati Uniti. Come nel 2008, Washington ha ampiamente sottovalutato l’abilità strategica e il sangue freddo di Vladimir Putin, che nell’arco di poche ore è riuscito a rovesciare quella che molti osservatori avevano considerato una posizione di debolezza. Sedendosi al tavolo delle trattative con i propri uomini a presidiare la Crimea e con un numero crescente di regioni che si apprestano ad indire referendum aderire alla Federazione Russa, Putin si è arroccato su una posizione di forza che obbligherà le controparti ad offrire qualcosa di consistente per raggiungere un accordo. La convinzione con cui Mosca sta conducendo la trattativa ha portato la Merkel a rispolverare il “cerchiobottismo” (6) che da anni caratterizza l’ondivago approccio tedesco nei confronti di USA e Russia confidando ad Obama di non essere sicura che Putin «Stia mantenendo il senso dalla realtà» (7).
La fermezza con cui il Cremlino ha fatto valere le proprie posizioni a livello internazionale e l’abilità con cui ha gestito le crisi georgiana, siriana ed ucraina testimoniano in maniera lampante come la Russia stia rapidamente recuperando le posizioni perdute con il crollo dell’Unione Sovietica e con le disastrose politiche filo-occidentali condotte dapprima da Mikheil Gorbaciov, e successivamente da Boris El’cin e dalla cerchia oligarchica sua sostenitrice.

Note

1) “Il Messaggero”, 2 marzo 2014.
2) “Il Manifesto”, 30 maggio 2013.
3) Ibidem.
4) “Georgia Times”, 11 luglio 2011.
5) Jacques Sapir, Ukraine: an update, “RussEurope”, 24 febbraio 2014.
6) A questo proposito, è bene rileggere ciò che ha scritto l’analista William Engdahl: ««La politica estera tedesca esita tra i legami intrecciati con il vecchio occupante statunitense del XX Secolo da una parte e, dall’altra, i suoi interessi economici comuni con il suo partner storico, la Russia. Gerhard Schröder incarna questo dilemma. Vecchio cancelliere atlantista, è oggi padrone di un consorzio russo. Sul piano geopolitico, questa contraddizione si concentra a Lubmin (vicino a Rostock), terminale del gasdotto russo-tedesco. Nella storia della Repubblica Federale Tedesca del dopoguerra, i cancellieri tendono a sparire quando si legano ad obiettivi politici che si discostano troppo dall’ordine del giorno, su scala mondiale, di Washington» (William Engdahl, The new geopolitical importance of Lubmin, “Réseau Voltaire”, 10 luglio 2010).
7) “Corriere della Sera”, 3 marzo 2014.


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